L’ Avvocatura s’ interroga
Grazie alla collega Avv. Francesca Lex
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PENSIERI LIBERI SULL’EVOLUZIONE DELLA PROFESSIONE FORENSE Sono iscritta (orgogliosamente) all’albo degli Avvocati dal 1995. All’epoca, e già si intuisce quale formalismo ancora caratterizzasse questa professione, oggi ormai impoverita di tutto, persino delle formalità, si distingueva la figura dell’Avv. da quella del Dott. Proc., giovane giurista in odore di gloriosa carriera che veniva iscritto in un Albo diverso, quasi a voler separare anche l’esperienza (e l’importanza professionale) del neoabilitato da quella del più navigato Avvocato. Ci pensò una legge, che nel 1997 abolì l’Albo dei Procuratori Legali e predispose d’ufficio l’iscrizione all’Albo unico degli Avvocati, ad eliminare le distinzioni fra seniores e iuniores.
Quello che ai più vecchi sembrava un obbrobrio, uno strumento di livellamento professionale che eguagliava i pivelli e i dotti, così facendo di tutt’erba un fascio non solo nelle competenze, ma anche nei guadagni, era forse solo l’inizio di un diverso modo di concepire la professione, fatto di maggior concretezza. Mi ricordo con tenerezza il momento in cui ci scambiavamo coi giovani colleghi l’emozione di appellarci “Avv.”, come se quel titolo davanti al cognome avesse un valore superiore a quello di “Dott. Proc.” e spazzasse via di colpo tutte le fatiche umane ed economiche tipiche dei neofiti agli albori di una carriera, per piazzarci d’ufficio nell’Olimpo dei Principi del Foro. Illusioni giovanili. In verità quel prenome nulla cambiava, neanche di simbolico, visto che di fatto la nostra inesperienza si leggeva sui nostri volti imberbi e po’ smarriti di “ragazzi”, ancora pendenti dalle labbra del proprio dominus, anche se affrancati dalle dipendenze del praticantato; gli stessi “primi” clienti, coraggiosi, sprovveduti, o semplicemente privi di alternative, si affidavano con qualche perplessità; i più arditi provavano ad avanzare qualche dubbio; ma quando poi ore di studio e di approfondimento sopperivano all’inesperienza, e ci consentivano di soddisfare egregiamente le aspettative del nostro assistito, ci conquistavamo un piccolo gradino per la nostra “affermazione”. Affermazione: ma rispetto a cosa? Pare che l’intera categoria stia subendo già da anni una sorta di retrocessione sociale: dopo venticinque anni di “onorata” carriera, assisto alla costante discesa in picchiata di una professione, una volta ritenuta addirittura “casta”, ed oggi ridotta a più prosaica “categoria”, che molto smalto (e prestigio) ha perso rispetto alle sue illusorie prerogative per diventare molto più banalmente un servizio fra i tanti.
E’ vero, i tempi cambiano, e così i costumi sociali ed in generale il mondo del lavoro, fatto di operai, impiegati, artigiani, piccoli imprenditori, grandi aziende ed una marea di liberi professionisti, quelli che prestano servizi, assistenza e consulenza con la partita IVA. Ormai gli avvocati sono entrati in questo grande calderone, e lasciandosi travolgere da questa macchina infernale fatta di massimi risultati al minor costo, hanno iniziato, più o meno consapevolmente, ad abbassare i loro livelli, sociali ed economici. Sono lontani i ricordi di quando il solo fatto di indossare una toga suscitava reverenza e stima incondizionata (anche laddove non meritata), il ricorso all’avvocato, quello titolato, era veramente indispensabile per risolvere la controversia, oppure la parcella veniva saldata tutta e subito, senza discussioni sulla congruità e tentativi di negoziazione; oggi il “cencio nero” ha perso il suo valore intrinseco, la figura professionale dell’avvocato è ridotta a quella di un mero tecnico esperto di qualcosa (chi sa di diritto in generale, come sarebbe suo dovere, viene additato in senso spregiativo “tuttologo”…), la prestazione diventa servizio, al pari di quello offerto da qualsiasi altro soggetto gravitante nel vastissimo mondo del terziario, ed il corrispettivo è spesso frutto di trattative al ribasso rientranti nel più spietato campo della competitività. I più giovani, anche per ovvi motivi anagrafici, sono già predisposti ad esercitare la professione con questo nuovo schema, sono più rapidi, più tecnologici, più pratici, meno formali, meno incollati ad etichette, e forse anche meno attenti alle regole scritte (…anche deontologiche…); i più anziani sono invece un po’ in ritardo, legati alla costante necessità di assistenza tecnologica e linguistica (per l’infinita serie di inglesismi ormai introdotti a pieno titolo anche nella professione forense), ancora affezionati a quei manierismi che oggi suonano come orpelli nel linguaggio più “easy” a cui ci hanno abituato. Quelli di mezza età come chi scrive, invece, ad un passo tra il vecchio ed il nuovo, prendono laconicamente atto del drastico cambiamento che ha coinvolto l’intera categoria, e stentano ad assuefarsi ad un futuro da venditori di un servizio, qualificato certo, ma pur sempre servizio, depurato da tutte quelle regole di apparente vecchiume che ancora distinguono la prestazione intellettuale da quella d’opera nell’accezione dello stesso codice civile, che separa la prima dalla seconda in base alla materialità del risultato finale ed al mezzo per raggiungerlo. Proprio il risultato, inteso come raggiungimento dell’obiettivo, ha snaturato la parte intellettuale della professione, che da obbligazione di mezzi (come è ancora codificata) si è trasformata appunto, in maniera latente, in obbligazione di risultato, così attribuendo alla soddisfazione del cliente l’unico parametro di misura di un’attività che negli intenti del vecchio legislatore doveva consistere “solo” nella corretta applicazione delle regole tecniche.
Certo il Legislatore del 1942, disattento e ignaro del futuro percorso storico, non poteva immaginare che, specialmente per l’avvocato, quella distinzione dopo molti (ma nemmeno tanti…) anni avrebbe perso di significato e che la professione sarebbe divenuta più pragmaticamente un mestiere asservito a logiche commerciali, quelle secondo le quali il frutto di un lavoro fatto anche di tanto impegno e dedizione può essere vanificato da un’erronea valutazione di un Giudice o dalla corsa al ribasso di un altro collega meno coscienzioso. Anche l’estetica è cambiata: se ancora oggi parte dei rappresentanti maschili cede all’uso della cravatta nelle comparizioni ufficiali, da udienza per intenderci, le donne hanno iniziato a rompere il ghiaccio vestendo abiti sempre più comodi e casual, in linea con i tempi e con l’ormai invalsa tendenza di privilegiare la sostanza rispetto alla forma; la stessa definizione che oggi ci attribuiamo è profondamente diversa e significativa della nostra nuova conformazione: mentre ieri dicevamo “sono” un avvocato, oggi diciamo “faccio” l’avvocato, consapevoli che il nostro è ormai un lavoro (autonomo) come un altro. Molti sono i fattori che hanno concorso a questa drastica trasformazione nei modi di esercitare la professione forense, addirittura di concepirla: un generale maggior acculturamento, l’avanzamento tecnologico, i mezzi per un’informazione sempre più “pret-a- porter”, la globalità, la semplificazione della forma e la sempre crescente complessità della sostanza, leggi più liberali, tentativi di maggior equità socio-economica, il generale alleggerimento dei costumi; tutti hanno contribuito ad offuscare la figura “tradizionale” dell’avvocato per generarne una nuova, o “innovativa”, fatta di maggiori specializzazioni, maggior attenzione al progresso tecnologico, maggior snellimento della terminologia e dei rapporti con il cliente, minor uso di ammennicoli per arrivare più in fretta al risultato finale, maggior elasticità nelle pretese economiche con l’occhio sempre più puntato sulle leggi di mercato, prima ancora che dell’Ordinamento. C’è chi individua la responsabilità di questa “mutazione genetica” nella riforma delle tariffe forensi, quelle che una volta si chiamavano “diritti di avvocato” e che nel raggruppamento di adempimenti e scaglioni di valore hanno massificato gran parte delle attività, anche tra le più diverse fra loro, ad oggettivo discapito di un corrispettivo veramente adeguato a quanto materialmente svolto.
Altri invece danno la colpa ad alcune liberalizzazioni del passato, che nella finalità, anche nobile, di eliminare molta burocrazia e solennità a tutto vantaggio del consumatore finale, hanno abolito i minimi tariffari (poi reintrodotti), così aprendo la strada alle corse al ribasso di cui sopra (ovviamente con un pari ribasso anche della qualità…..), hanno consentito l’uso di mezzi pubblicitari (prima considerati come il demonio per i puristi della professione), così ovviamente agevolando chi ha maggiore disponibilità di risorse, hanno introdotto lo strumento della negoziazione della parcella con il cliente, altro tabù infranto a tutto danno dell’avvocato meno
concorrenziale, soprattutto se messo a confronto, come sta accadendo già da tempo, con una pletora di consulenti “tuttofare”, più o meno titolati e preparati. E così è iniziata la china: quelli che prima erano considerati (a torto, o a ragione) ai primi gradini (partendo dall’alto) della scala sociale, fra i più benestanti, addirittura ricchi, adagiati nelle loro poltrone di vera pelle, quelli che nell’immaginario collettivo (fortunatamente non proprio per tutti…) assumevano le vesti dello squalo, ritenuti capaci di vendersi la madre pur di accaparrarsi un posto al sole, che con la loro spregiudicatezza ed un linguaggio da azzeccagarbugli erano capaci di infinocchiare il nemico (ed anche il cliente), quelli che, trasformando ogni difficoltà altrui in un vantaggio proprio, vedevano il cliente solo come fonte di reddito, quelli furbi a prescindere, hanno cominciato a scendere sempre più giù per quella scala, qualcuno lentamente, altri precipitando. E si dirà: ben venga! Basta quei petti tronfi, dopo arringhe piene di prosopopea e latinismi, basta quell’altezzosità intrinseca nel solo uso del titolo, all’apice della soggezione con la toga, basta quegl’inutili orpelli artatamente usati per distrarre l’attenzione, o complicare il problema, basta quei virtuosismi lessicali che sotto sotto nascondono la scarsità di argomenti, basta quei privilegi di immunità regalati da un auto protezionismo ordinistico, basta quei formalismi privi di un significato diverso dalla mera buona educazione. E’ vero; basta. Ma nessuno poteva profetizzare che questa metamorfosi, sacrosanta nella parte in cui ha consentito agli avvocati di riscattarsi (si spera con successo) da quella brutta nomea che hanno acquisito nel sentimento comune, avrebbe rappresentato al contempo una sorta di declassamento, di deprezzamento del ruolo, e di consequenziale impoverimento, di valori e di guadagni. Oggi tutto si è offuscato per ubbidire all’esigenza “di portare il pane a casa”; gli avvocati del nuovo millennio fanno fatica a stare al passo con la concorrenza, con le nuove tecnologie entrate prepotentemente nella loro vita professionale, con la costante necessità di aggiornamento reso sempre più caotico dalla superfetazione legislativa, e così hanno iniziato a trascurare alcuni importanti rituali, si dimenticano a volte dell’etica, a volte della deontologia, infine a volte di quella dignità richiamata nella formula del giuramento (introdotta con la riforma dell’Ordinamento Forense del 2012) che recita “consapevole della dignità della professione forense e della sua funzione sociale,………..”.
Quella dignità (professionalmente parlando….) si è ormai ingrigita.
Infatti, mentre non è così infrequente imbattersi in “offerte” a costi infimi, addirittura gratis, si leggono veri e propri “listini”, come se andare dall’avvocato fosse come andare al supermercato:
oggi prendo un etto di separazione consensuale a 250,00 Euro, domani mi devo ricordare di prendere un kilo di decreto ingiuntivo a 150,00 Euro. Quando gli stessi rappresentanti della categoria si comportano come rivenditori di mercanzia pur di accaparrarsi clientela nel silenzio assoluto degli Ordini diventa tangibile quanto ormai i tempi per l’avvocatura siano proprio cambiati, in peggio. Se da un lato quindi la discesa sociale e la perdita di una posizione privilegiata hanno dato all’avvocato un volto più “umano”, anche in quanto più “bisognoso”, di fronte alla massacrante corsa ad ostacoli che un sistema sempre più veloce ed esigente ha creato in qualsiasi ambiente, lavorativo, sociale e professionale, dall’altro sono andate perdute tante caratteristiche di quella che una volta era una professione che viveva quasi di luce propria, tra le più ambite ed elevate. Oggi il rispetto quasi incondizionato di cui godeva l’avvocato è stato soppiantato da una pervicace diffidenza che diventa spesso disistima e sfiducia ingiustificata, e la consapevolezza del bisogno economico in cui versa il proprio legale si è trasformata in un’arma (fortunatamente quasi mai letale…) nelle mani di tanti clienti. A prima vista ciò potrebbe sembrare una sorta di parificazione sociale, un accorciamento delle distanze avvocato/cliente a tutto vantaggio di una maggiore equità, addirittura (come pensano i più ingenui) di una maggiore qualità della prestazione, spinta a diventare sempre migliore in una logica di competitività. A ben guardare invece è una caduta dei Filistei: muoiono (metaforicamente) gli avvocati, e muore un contesto sociale fatto di certezza del diritto, di efficace espressione delle proprie (giuste) ragioni, di ricerca di giustizia per tutti, di competenze effettivamente all’altezza del compito. Come si può garantire infatti all’intera collettività la possibilità di ricevere una corretta assistenza laddove ciò che ci spinge è la necessità? Come si può svolgere una prestazione curata fin nel minimo dettaglio quando il tempo a disposizione deve essere sapientemente centellinato in una miriade di altre cose di contorno? Come si può sperare di trovare un professionista vero, serio, competente in colui che pur di “far cassa” promette soluzioni oggettivamente irraggiungibili? O peggio ancora, pur non incorrendo nel reato di usurpazione, esercita attività riservate alla preparazione professionale di un titolato? Come si può immaginare di “comprare” una prestazione professionale a prezzo fisso e ricevere un trattamento veramente qualificato e personalizzato come vuole la buona pratica, con l’esame del caso, l’analisi delle singole problematiche, la scelta della strategia più adeguata, l’esperimento di tutte le attività collaterali?
Dunque lo svilimento della funzione sociale dell’avvocato, paradossalmente ridotto spesso a comprimario in una società in cui è sempre maggiore l’esigenza di un soggetto istituzionalmente deputato alla tutela dei diritti, anche fondamentali, di tutti, diventa un problema comune perché si
mina dalle fondamenta ciò che invece deve essere ancora un caposaldo del nostro Ordinamento: la garanzia di poterci sempre difendere da soprusi e illegalità mediante la corretta applicazione delle norme, in poche parole la GIUSTIZIA.
Avv. Francesca Lex